Proposta Radicale 28/29 2025
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Saggio

La mia religione

Lev Tolstoi (a cura di Guido Biancardi, dodicesima parte)

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Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Audizione dell’avvocato Fabio Trizzino

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La mia religione

La mia religione

(di seguito la dodicesima parte dell’opera, inedita per l’Italia, de “La mia religione”, di Lev Tolstoj)

Da nessuna parte nell’Antico Testamento si legge ciò che ci insegna il catechismo, vale a dire che Dio ha insufflato nell’uomo un’anima immortale o che il primo uomo era immortale prima della caduta. Secondo il primo racconto della Genesi (I, 26), Dio ha creato l’uomo esattamente come ha creato gli animali, il maschio e la femmina, e nello stesso modo gli ha detto di crescere e di moltiplicarsi. Non vi è detto che gli animali sono immortali, e lo stesso per l’uomo. Nel secondo capitolo, è detto che l’uomo ha conosciuto il bene ed il male. Quanto alla vita, né si dice del tutto semplicemente che Dio ha scacciato l’uomo dal paradiso e che gli ha vietato la via per l’albero della vita. L’uomo non ha mai gustato il frutto dell’albero della vita, non ha mai ricevuto l’haiè-oilom, cioè la vita eterna; è rimasto mortale.

Il giudaismo dice che l’uomo è come è, ovvero mortale. La vita è presente in lui, intanto, che vita in generale che continua di generazione in generazione all’interno di un popolo. Secondo il giudaismo, un sol popolo ha in sé questo potenziale di vita. Quando Dio dice: voi vivrete e voi non morirete, lo dice al popolo nel suo insieme. La vita che Dio ha insufflato nell’uomo è mortale per ciascun uomo particolare, ma essa prosegue di generazione in generazione se gli uomini osservano la loro alleanza con Dio, ovvero le condizioni poste da Dio.

Dopo aver enunciato tutte le leggi e detto che quelle leggi non erano nel cielo, ma nei loro cuori, Mosè dice nel Deuteronomio (XXX,15): guarda, io metto oggi davanti a voi la vita ed il bene, la morte ed il male, poiché vi prescrivo d’amare l’Eterno, di camminare nelle sue vie, e d’osservare la sua legge al fine che voi viviate. E, nel versetto 19: ne prendo a testimone oggi contro di voi il cielo e la terra: vi ho messo davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegliete la vita, così che voi viviate, voi con la vostra posterità, per amare l’Eterno, per obbedire alla sua voce e per legarvi a lui; poiché da questo dipende la vostra vita ed il prolungamento dei vostri giorni.

La differenza essenziale fra la nostra nozione di vita e quella degli Ebrei risiede nel fatto che, secondo noi, la nostra vita mortale trasmessa di generazione in generazione non è la vera vita, ma una vita decaduta, provvisoriamente deteriorata, non si sa perché; mentre, secondo gli Ebrei, questa vita è tutto quel che vi è di più vero, essa è un bene supremo donato all’uomo a condizione che egli compia la volontà di Dio. Dal nostro punto di vista, la trasmissione di questa vita decaduta di generazione in generazione è una maledizione che continua. Dal punto di vista degli Ebrei, è il bene supremo cui l’uomo possa raggiungere; ed ancora, a condizione di compiere la volontà di Dio.

Tale è dunque la nozione di vita che il Cristo riprende per fondare il suo insegnamento sulla vita vera od eterna opposta alla vita individuale e mortale. Sondate le Scritture, dice il Cristo agli Ebrei (Giovanni, V,39), poiché voi pensate d’avere in esse la vita eterna.

Un giovane domanda al Cristo (Matteo, XIX,16): come entrare nella vita eterna? Il Cristo, rispondendo alla domanda sulla vita eterna, dice: se vuoi entrare nella vita (non dice la vita eterna, dice la vita tout court), osserva i comandamenti. Egli dice la stessa cosa al dottore della legge: fa questo, e tu vivrai (Luca, X, 28); parla di vivere del tutto semplicemente, senza aggiungere “eternamente”. Nei due casi, il Cristo definisce ciò che si deve intendere con le parole “vita eterna”. Quando le usa, egli non fa che dire agli ebrei ciò che a più riprese è stato detto nella loro legge, ovvero: la realizzazione della volontà di Dio è per l’appunto la vita eterna.

Un giovane domanda al Cristo (Matteo, XIX,16): come entrare nella vita eterna? Il Cristo, rispondendo alla domanda sulla vita eterna, dice: se vuoi entrare nella vita (non dice la vita eterna, dice la vita tout court), osserva i comandamenti. Egli dice la stessa cosa al dottore della legge: fa questo, e tu vivrai (Luca, X, 28); parla di vivere del tutto semplicemente, senza aggiungere “eternamente”. Nei due casi, il Cristo definisce ciò che si deve intendere con le parole “vita eterna”. Quando le usa, egli non fa che dire agli ebrei ciò che a più riprese è stato detto nella loro legge, ovvero: la realizzazione della volontà di Dio è per l’appunto la vita eterna.

Alla vita provvisoria, individuale, personale, il Cristo oppone il suo insegnamento della vita eterna che Dio ha promesso ad Israele nel Deuteronomio ma con questa differenza, che, secondo gli Ebrei, la vita eterna si persegue unicamente nel popolo d’Israele e che per accedervi occorre osservare le leggi del Dio d’Israele, mentre, secondo la legge del Cristo, la vita si persegue nel Figlio dell’uomo, e, per conservarla, bisogna osservare le leggi del Cristo che esprimono la volontà di Dio per tutta l’umanità. Alla vita individuale, il Cristo oppone non la vita dell’oltre-tomba, ma la vita universale, legata alla vita presente, passata e futura dell’umanità nel suo insieme: la vita del Figlio dell’uomo.

Secondo la dottrina degli Ebrei, la salvezza della vita individuale dipendeva dal compimento della volontà di Dio espressa nella legge di Mosè attraverso i suoi comandamenti. È unicamente a queste condizioni che la vita degli Ebrei sfuggiva alla distruzione per essere trasmessa di generazione in generazione nel popolo eletto da Dio. Secondo la dottrina del Cristo, la salvezza della vita individuale è lo stesso compimento della volontà di Dio espressa nei comandamenti del Cristo. È unicamente a questa condizione che, secondo l’insegnamento del Cristo, la vita individuale sfugge alla distruzione per divenire definitivamente eterna nel Figlio di Dio. L’unica differenza risiede nel fatto che, con la mediazione di Mosè, un solo popolo serviva Dio, mentre, con la mediazione del Cristo che serve il Padre, tutti gli uomini servono Dio. La continuazione della vita nelle generazioni di un solo popolo era dubbiosa perché questo popolo poteva rischiare di scomparire e perché questa continuazione dipendeva dalla procreazione carnale. La continuazione della vita secondo l’insegnamento del Cristo è indubitabile, poiché secondo la sua dottrina la vita è trasferita nel Figlio dell’uomo che vive secondo la volontà del Padre. Ma supponiamo che le parole del Cristo sul giudizio finale (universale) e la fine del  secolo (dei secoli) così come altre parole del Vangelo secondo san Giovanni comportino, malgrado tutto, la promessa di una vita dopo la morte per le anime dei defunti; il suo insegnamento sulla luce della vita ed il regno di Dio non  avrebbe, senza alcun dubbio, minor senso accessibile a coloro che lo hanno sentito ed a noi oggi: ovvero che la vera vita è unicamente quella del Figlio dell’uomo secondo la volontà del Padre. Questa verità è tanto più facile da ammettere della dottrina della vera vita secondo la volontà del Padre comporti la nozione d’immortalità e di vita dopo la morte. Forse sarebbe più giusto ammettere che dopo questa vita terrestre che l’uomo vive perché la propria volontà individuale si compia, egli acceda ad una vita individuale eterna in paradiso ove ogni sorta di gioie l’attendono; questo sarebbe forse più giusto, ma pensarlo, sforzarsi di credere che le mie buone azioni saranno ricompensate con eterna beatitudine e le mie cattive con degli eterni supplizi non corrisponde all’insegnamento del Cristo. Pensarlo è al prezzo di privare la dottrina del Cristo dei suoi insegnamenti.

Tutto il messaggio del Cristo mira a che i suoi discepoli comprendano la natura illusoria della vita individuale e che la rinneghino al fine di collocarla nel seno della vita dell’umanità tutta intera, della vita del Figlio dell’uomo. Ora, la dottrina dell’immortalità dell’anima individuale non solo non chiama a rinunziare a questa vita individuale, ma essa fissa l’individualità per sempre. Per i rappresentanti degli Ebrei, dei Cinesi, degli Hindù e di tutti gli uomini che non credono al dogma della caduta e della redenzione, la vita è quale è. Gli uomini si accoppiano, mettono al mondo dei figli, li allevano, invecchiano e muoiono. I loro figli crescono, prolungano la loro vita che prosegue, senza interrompersi, di generazione in generazione, al modo di tutto ciò che esiste nel mondo: pietre, terra, metalli, piante, animali, astri, e tutto l’universo. La vita, è la vita, e bisogna usarne nella migliore maniera possibile. È irragionevole vivere per sé soli. È perciò, da che gli uomini esistono, che essi cercano per la loro vita degli obiettivi esteriori ad essi stessi: vivono per il loro figlio, per la famiglia, per il popolo, per l’umanità, per tutto ciò che non muore con la loro vita individuale.

In compenso, secondo la dottrina della nostra Chiesa, la vita umana come bene supremo di cui abbiamo conoscenza, ci è presentata come una particella della vita di cui siamo provvisoriamente privati. Noi pensiamo che la nostra vita non è quella che Dio voleva e doveva donarci, ma che la nostra vita è una vita corrotta, malvagia, decaduta, che essa non è che un “riflesso”, che una parodia della vera vita, quella che immaginiamo, non si sa perché, che Dio avrebbe dovuto donarci. Secondo tale idea, il compito principale della nostra vita non consiste affatto a vivere questa vita mortale conformemente alla volontà di colui che dà la vita al fine di renderla eterna nelle generazioni degli uomini, così come l’insegnano gli Ebrei o al fine di fonderla nella volontà del padre, come l’insegna Il Cristo, ma esso consiste nel persuaderci che la vera vita ha inizio dopo questa.

Il Cristo non parla di questa vita immaginaria che Dio avrebbe dovuto donare agli uomini, ma che non ha loro donato, s’ignora perché. Il Cristo ignorava la teoria della caduta di Adamo e della vita eterna in paradiso, e non ne fa menzione, non vi fa una solo allusione. Il Cristo parla della vita qual è e sarà sempre. Quanto a noi, parliamo di una vita che abbiamo immaginato e che non è mai esistita; come potremmo, dunque, comprendere l’insegnamento del Cristo?

Il Cristo non avrebbe potuto immaginare che i suoi discepoli potessero forgiare un’idea così strana. Ritiene che tutti gli uomini comprendano che la vita individuale deve inevitabilmente perire, e rivela loro una vita che non perisce. Egli apporta il bene a coloro che vivono nel male; ma a coloro che sono persuasi di possedere più del dono del Cristo, il suo insegnamento non può apportare nulla. Supponiamo che io tenti di persuadere un uomo di mettersi al lavoro, affermo che ciò gli procurerà vestiti e cibo, quando, all’improvviso, quest’uomo vede che pur senza questo è milionario. È chiaro che egli non accetterà i miei argomenti. Accada la stessa cosa con il messaggio del Cristo. Che bisogno ho io di lavorare quando posso essere ricco senza muovere un mignolo? Che bisogno ho di vivere questa vita come Dio me lo domanda, persuaso come sono di vivere in eterno anche senza questo?

Se esistono degli uomini che dubitano della vita dopo la morte e della salvezza basata sulla redenzione, non si saprebbe dubitare della salvezza di tutti gli uomini e di ciascuno in particolare, insufflata nel sapere che è inevitabile perdere la vita individuale e che la vera vita di salvezza risiede nella fusione della sua volontà con quella del Padre. Che ogni uomo ragionevole si domandi cos’è la sua vita e cos’è la sua morte. E che cerchi di dare a questa vita ed a questa morte un senso diverso da quello che è stato mostrato dal Cristo.

Ogni tentativo di pensare una vita individuale che non sia basata sulla rinunzia a se stessi allo scopo di servire gli uomini, l’umanità, il Figlio dell’uomo, ci conduce di fronte ad un fantasma che si volatilizza al primo contatto con la ragione. In cambio, non posso dubitare che la mia vita individuale perisca, ma che la vita del mondo sussista per volontà del Padre, e che non esista possibilità di salvezza al di fuori della fusione con questa vita. Ma è così poco, a paragone con alcune credenze religiose elevate che promettono la vita futura. E’ poco, ma è sicuro.

Mi sono perduto in una tempesta di neve. Uno dei miei compagni cerca di convincermi, e lui stesso lo crede, che vede delle luci e che il villaggio è molto vicino; ma siamo tutte e due vittime di una illusione, perché ne abbiamo voglia, e ci siamo già avvicinati a queste luci, ed abbiamo visto che non esistevano. Un altro si è messo ad avanzare attraverso la neve; dopo qualche passo, ha ritrovato il cammino, ed ecco che ci grida: “Non andate di là, quelle luci sono un’illusione, dappertutto altrove vi perderete e perirete, mentre, qui, c’è una strada sicura, vi ci sono già, essa ci condurrà a destinazione”. È ben poco. Mentre noi credevamo alle luci che danzavano nei nostri occhi spaventati, noi vedevamo già il villaggio, e l’isba ben calda, e la salvezza, ed il riposo, mentre là non c’è altro che un cammino sicuro. Ma se ascoltiamo il primo uomo siamo certi di perire congelati mentre se ascoltiamo il secondo siamo certi di giungere a destinazione.

Che devo fare dunque se sono il solo ad aver compreso il messaggio del Cristo e ad avervi creduto in mezzo a coloro che non lo comprendono e non lo seguono? Che devo fare? Vivere come tutti o vivere secondo l’insegnamento del Cristo? Ho capito il messaggio del Cristo nei suoi comandamenti e vedo che osservarli mi dà la beatitudine, come a tutti gli uomini. Ho capito che l’osservanza di quei comandamenti è la volontà di quel principio di tutte le cose da cui procede, fra altre, la mia vita. 

Ho capito ugualmente che, qualsiasi cosa faccia, morirò inevitabilmente di una morte assurda dopo una vita altrettanto assurda a meno che non segua la volontà del Padre, e che è unicamente nel compimento di questa volontà che risiede per me l’unica possibilità di salvezza. Vivendo come tutti, agisco senza alcun dubbio in contrasto alla comunità umana, mi oppongo certamente alla volontà del Padre della vita, mi privo di non dubitarne dell’unica possibilità di migliorare la mia disperata situazione. Seguendo l’insegnamento del Cristo io continuo ciò che gli uomini hanno fatto prima di me: contribuisco al bene di tutti gli uomini che vivono oggi e di quelli che vivranno dopo di me, realizzo la volontà di colui che mi ha fatto vivere, l’unica cosa che possa salvarmi.

Il circo di Berditchev è in fiamme. E’ uno spintonarsi selvaggio, una baraonda, la gente si accalca contro la porta che si apre verso l’interno. Il salvatore arriva per dire: “Allontanatevi dalla porta, indietreggiate; più spingete e meno avete possibilità di salvarvi. Arretrate, e troverete l’uscita, vi salverete”. Che siamo in più persone o che sia solo ad averlo sentito e creduto, poco importa; ma, una volta che l’ho sentito e creduto, che fare d’altro se non arretrare e chiamare tutti ad ascoltare la voce del salvatore? Mi si strangolerà, mi si schiaccerà, mi si ucciderà, forse, ma la mia sola possibilità di salvezza consiste in ogni caso nel portarmi dalla parte dell’unica uscita. E non posso non andarvi. Il salvatore dev’essere un vero salvatore, deve davvero salvare. E la salvezza che mi apporta il Cristo è vera salvezza. È venuto, ha detto ciò che ha detto, e l’umanità è salva.

(segue. Le precedenti parti di questo saggio sono pubblicate sui numeri precedenti di “Proposta Radicale”)

Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Audizione dell’avvocato Fabio Trizzino

3 maggio 1992: vicino Capaci con una carica di tritolo, RDX e nitrato d’ammonio, vengono uccisi Giovanni Falcone, la moglie del magistrato, gli uomini della scorta. 19 luglio 1992: a via D’Amelio a Palermo vengono uccisi Paolo Borsellino, magistrato e fraterno amico di Falcone, e la sua scorta. Stragi mafiose, attribuibili alla cosca che faceva capo a Totò Riina. Una chiave di lettura non a caso inedita, giudiziariamente affossata, giornalisticamente trascurata, è quella raccontata in quattro libri: M.M., in codice unico del generale Mario Mori; La verità sul dossier mafia-appalti, sempre di Mori e del colonnello Giuseppe De Donno; Ho difeso la Repubblica. Come il processo trattativa non ha cambiato la storia d’Italia, di Basilio Milio; La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino, di Vincenzo Ceruso.

Chiavi di lettura che hanno trovato uno sbocco istituzionale-parlamentare. La commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, ha ascoltato l’avvocato Fabio Trizzino, che rappresenta i tre figli di Paolo Borsellino, Fiammetta, Lucia, Manfredi e Lucia. Audizioni integralmente trasmesse da Radio Radicale. Proposta Radicale dal n.16-17 ha cominciato a pubblicare gli stenografici di queste sedute, non per caso ignorate dalla grande informazione e da buona parte dei “professionisti dell’antimafia”. Quella che segue è la sesta puntata.

Seduta di lunedì 2 ottobre 2023. Testo del resoconto stenografico

Avv. Fabio Trizzino (legale dei figli di Paolo Borsellino, Fiammetta, Lucia, Manfredi): “A Casa Professa il giudice insiste sul fatto che Falcone viene ucciso fondamentalmente in un’ottica preventiva perché molti hanno paura che possa tornare a fare nuovamente il magistrato, lo dice a chiare lettere, questa testimonianza la potete sentire su YouTube. Dice una cosa importantissima, tende a dire che le annotazioni del diario di Falcone sono autentiche e qui ora dobbiamo aprire un capitolo fondamentale, su cui, secondo me, in questi 31 anni, non si è insistito abbastanza e, nei limiti in cui è possibile impetrare una richiesta in questa sede, domando alla Commissione e al suo presidente di chiedere all’autorità giudiziaria competente, con tutte le formule di segretezza del caso, le annotazioni, che probabilmente sono a Caltanissetta. Vi dimostrerò che anziché essere 14, come ha sostenuto Liana Milella e come è emerso in seno alla commissione del CSM, le annotazioni di Falcone sono 39, questo è un punto fondamentale. Sto andando velocemente perché mi rendo conto che non posso attardarmi molto. 

 a storia delle annotazioni sul diario di Falcone è molto importante perché intanto è una voce che viene dall’interno della Procura e dobbiamo riflettere tutti quanti qua dentro sul fatto che le nostre torri gemelle, come disse con quella bellissima espressione Andrea Camilleri, hanno avuto lo stesso destino, cioè problemi con Giammanco e con altri colleghi della Procura perché dalle annotazioni di Falcone emerge chiaramente.

Non è che Falcone e Borsellino fossero la verità o la voce della verità, però c’è qualcosa che dà loro una certa dignità e una certa autorevolezza, visto che sono stati macellati da Cosa nostra. Un motivo c’era. Forse si erano guadagnati sul campo una certa credibilità. La questione dei diari di Falcone è questa.
Il 20 giugno del 1992, Giuseppe Ayala rilascia un’intervista in cui dice: «Guardate che i diari di Falcone esistono e io li ho visti in vita», e la stessa cosa dice Borsellino. Dice: «Anch’io li ho visti parzialmente, in vita»; su questo dobbiamo tornare perché è pure importante, «parzialmente».

Questa ricostruzione secondo cui dei colleghi, Ayala e Borsellino, avessero potuto vedere in vita le annotazioni di Falcone lo conferma autorevolissimamente il 2 dicembre del 1998, nel Borsellino-ter, il presidente Leonardo Guarnotta. Dice: «Con Paolo un sabato mattina andammo in ufficio – era il marzo del 1991 – per chiedere conto e ragione a Giovanni della scelta di andare a lavorare al ministero con Martelli come direttore degli affari penali».

Entrano Guarnotta e Borsellino, che lavorava a Marsala, però di solito il sabato andava a fare un giro a incontrare i vecchi amici del pool, quelli che c’erano, con cui si era creato veramente un rapporto bellissimo. Così lo descrive Guarnotta: «In stanza c’era già Ayala, e il dottor Falcone, di fronte alle nostre rimostranze secondo cui avremmo dovuto sapere dal giornale che lui andasse a lavorare a Roma, non disse una parola, schiacciò un bottone e vennero stampate una serie di annotazioni», erano le annotazioni che ora se volete vi leggo.

Questo conferma anche la testimonianza di sua eccellenza Bruno Siclari, nell’ambito della commissione del CSM: dichiara che Borsellino gli disse che in parte le annotazioni di Falcone le aveva viste in vita e si faceva il problema morale, guardate un poco, che non avesse raccontato questa cosa a Giammanco. Allora Siclari gli ha detto: «Ma che te ne frega?»…«Ora viene fuori la notizia». Siclari lo consiglia: «Non ti preoccupare, perché ti fai questo problema?». Quindi Borsellino, Ayala e Guarnotta conoscono le annotazioni in parte di Falcone.

Andiamo all’intervista di Ayala del 20 giugno, che dice: «Attenzione ci sono le annotazioni di Falcone, lì dobbiamo cercare anche un possibile movente della strage». Qui entra in gioco una dichiarazione di Ingroia resa alla commissione regionale siciliana davanti a Claudio Fava, non ricordo se lo conferma anche al processo-depistaggio, ricordo che si trova nell’audizione presso la commissione presieduta dall’onorevole Fava. Dice: «Paolo si lamentò del fatto che, siccome Falcone aveva criticato Chinnici, che teneva il diario, come mai Giovanni cominciò a tenere il diario

Giustamente il presidente Fava risponde perché ci sono situazioni motivate. Ingroia in quella sede afferma: «La cosa assurda è che anche Borsellino poi lo fa, con la famosa agenda rossa». Perché, quando ci sono situazioni di quel tipo, diceva Rocco Chinnici – fu questa la giustificazione che Chinnici diede a Falcone – io scriverò nel diario in modo da poter dare a chi deve indagare la possibilità di risalire anche ai miei assassini. Quindi abbiamo Chinnici, Falcone e Borsellino, il quale comincia a utilizzare un’agenda rossa, di cui non sappiamo nulla perché sparisce, non dico alle 16 e 58 del 19 luglio, ma quasi.

Il 20 Ayala fa questa intervista, il 21 giugno – questo mi è stato detto, quindi verificatelo, perché sinceramente non l’ho verificato, ve lo riporto e farete fare le necessarie verifiche su questo dato – il 21 giugno la «Falange armata» rivendica la non veridicità delle affermazioni di Ayala.

Quindi la «Falange armata» interviene immediatamente a dire che Ayala sta dicendo cavolate, sta mentendo. Questo è un punto, secondo me, estremamente significativo. A proposito della Falange armata, come etichetta su cui bisogna fare tante considerazioni perché sul fatto che sul campo abbiano agito gli uomini di Cosa nostra non ci sono dubbi che tengono, ed è molto raro che Cosa nostra appalti a qualcuno l’esecuzione di delitti di quel tipo, molto raro! Resta questo dato, dovete verificarlo, che la Falange armata il 21 giugno vuole smentire Ayala.

Cosa c’era scritto in questi diari? La questione si pone sul numero di 14 o 39. La giornalista Liliana Milella il 25 giugno del 1992 si presenta spontaneamente a Tinebra per spiegare il motivo della pubblicazione di queste annotazioni sul quotidiano «Il Sole-24 ore» del giorno precedente e spiega l’origine di come le abbia avute. Racconta che le aveva avute da Falcone nel luglio dell’anno precedente. Falcone gliele consegnò perché di lei si fidava particolarmente in quanto sapeva di appartenere a una testata giornalistica che tutto cercava tranne che gli scoop; e poi «Il Sole 24 Ore» aveva avuto modo di organizzare dei dibattiti in cui Falcone aveva detto la sua su tutte quelle questioni legate all’organizzazione della lotta alla mafia. Lei spiega di averle dovute pubblicare perché in poche parole lo scoop era già finito: da una parte, abbiamo Ayala che dichiara che ci sono i diari di Falcone, dall’altra, il 22 giugno Peppino D’Avanzo sul settimanale l’Espresso e Francesco La Licata 23 giugno su la Stampa, pubblicano degli articoli in cui si dice che le annotazioni sono 39; quindi c’è questa difformità che andava in qualche modo risolta. In effetti, pensandoci bene, le annotazioni che sono in possesso della Milella si fermano al 6 febbraio 1991.

Siamo quindi in un’epoca antecedente al deposito dell’annotazione del ROS, che avviene il 20 febbraio del 1991, ma dagli articoli su la Stampa e su l’Espresso vengono citate due annotazioni in cui letteralmente Falcone si lamenta dell’assegnazione del fascicolo relativo all’omicidio del colonnello Russo e del professor Costa, avvenuto a Ficuzza nell’agosto del 1977, di cui parlerò, e soprattutto del fatto che, in riferimento al rapporto di mafia-appalti, i fedelissimi del procuratore Giammanco definiscono quel rapporto carta straccia da cui non c’è nulla da prendere.

Questo sull’Espresso del 22 giugno 1992 e su La Stampa del 23 giugno 1992. È chiaro che dunque, oltre a quelle del 6 febbraio del 1991, ci sono annotazioni che riguardano la gestione del rapporto mafia-appalti. Di queste noi, voi, il popolo italiano, non ne hanno assolutamente avuto mai disponibilità. Che cos’era successo? Che queste annotazioni per errore non erano state mandate alla Procura della Repubblica competente, Caltanissetta.

Se vogliamo, con riferimento alla strage di Capaci, un problema di competenza poteva anche porsi, se ci pensiamo un attimo. Non so come lo risolsero perché poi alla fine mi sono sempre occupato solo di Borsellino. Se ci pensiamo un attimo Falcone era un magistrato fuori ruolo. Anche la dottoressa Morvillo era un magistrato fuori ruolo, perché da una settimana era stata nominata nella commissione per gli esami in magistratura.

Non ricordo in questo momento la formulazione precisa dell’articolo 11 del codice di procedura penale, se faccia riferimento a magistrati che prestano o hanno prestato, forse più «prestano le funzioni» con riferimento a eventuale autore di reato o persona offesa dal reato, per incardinare la competenza funzionale. Però lì un problema di competenza poteva anche porsi, attenzione, perché non erano magistrati che stavano indagando a Palermo, non era quella la loro sede, ma è stata risolta così la questione, su Borsellino non ci sono dubbi. Questi dischetti arrivano a Palermo e per tre giorni prima che il dottor Vaccara, cioè il magistrato di collegamento che la Procura di Caltanissetta aveva affiancato a Borsellino…anche lì bisogna un pochino smitizzare il discorso, e noi per primi lo facciamo, melius re perpensa, che Borsellino non abbia potuto parlare con Caltanissetta è di peso da ragioni di due tipi, una obiettiva legata al fatto che Tinebra si insedia il 15 luglio e c’era una reggenza del procuratore Celesti, se non sbaglio, quindi Borsellino era pieno di impegni, come vi ho dimostrato, e poi Borsellino doveva cumulare le notizie da portare a Caltanissetta se doveva denunciare qualcosa in particolare nei confronti di Giammanco, per riconnettere il movente della strage di Falcone, anche a quello che aveva fatto e che avrebbe voluto fare sul dossier mafia-appalti. Anche lì cerchiamo di essere obiettivi perché, ripeto, uno studio più attento delle carte depotenzia, e noi siamo i primi a dirlo, il fatto che Borsellino non poté parlare con Caltanissetta, perché c’era un reggente e Tinebra doveva ancora insediarsi. La seconda ragione è che c’era questo magistrato di collegamento, il dottor Vaccara a cui Borsellino, questo ce lo dice Ingroia, doveva spiegare cos’era la mafia perché non era ferrato in questioni di mafia. È stata una formula organizzativa di attenzione verso Borsellino per potere in qualche modo stabilire un canale di collegamento con Caltanissetta. Dicevo quindi che questi floppy disk rimangono lì. L’annotazione riportata dal giornalista D’Avanzo è troppo precisa ed è come se l’avesse letta. Poi ci sono sempre le fughe di notizie, insomma questi floppy disk transitano a Palermo, stanno tre giorni, poi Vaccara li porta a Caltanissetta. Da lì non si capisce più niente…

Vi rimando, per la spiegazione della risoluzione delle questioni, al verbale della commissione del CSM con cui appunto, ripeto, il dottor Siclari, procuratore generale, cerca di spiegare l’attività investigativa lato sensus volta per poter stabilire se, con riferimento ai cahiers de doléances che costituivano queste annotazioni, ci potessero essere profili di rilevanza disciplinare. Sono appunti che si fermano, come vi dicevo, al 6 febbraio 1991. Il soggetto sottinteso è Giammanco. «Si è lamentato con il maggiore Insolia di non essere stato avvertito del contrasto fra pubblica sicurezza e carabinieri a Corleone su Riina, primo dicembre 1990». Seconda annotazione: «Ha preteso che Rosario Priore gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io a Roma, 7 dicembre 1990». Sempre il 7 dicembre 1990, terza annotazione: «Si è rifiutato – Giammanco – di telefonare a Giudiceandrea, giudice di Roma, per la Gladio, prendendo a pretesto il fatto che il procedimento ancora non era stato assegnato ad alcun sostituto».

Quindi Falcone è molto interessato a Gladio, farà le indagini su Gladio e arriverà a delle conclusioni. Quarta annotazione: Giammanco – questo è un punto importante – «ha sollecitato la definizione di indagine riguardante la regione al capitano De Donno, procedimento affidato a Enza Sabatino, assumendo che altrimenti la regione avrebbe perso finanziamenti». «Ovviamente – dice Falcone – qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione che solleciti l’ufficiale dei carabinieri. In tale previsione questo intorno al 10 dicembre 1990». Questo appunto lo dobbiamo sviluppare: su di esso Enza Sabatino dà una spiegazione completa a riscontro delle annotazioni di Falcone, perché queste annotazioni hanno anche un certo riscontro, anzi quasi tutte. Altra annotazione: «Nella riunione di pool per requisitoria Mattarella mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi, infastidito per il fatto che Lo Forte e io ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta. Rimprovera aspramente Lo Forte, 13 dicembre 1990». Altra annotazione del 18 dicembre 1990: «Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (PCI) di svolgere indagini su Gladio». Falcone è su Gladio. «Ho suggerito quindi al giudice istruttore di compiere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchio rito, acquisendo copia delle istanze in questione». 

Qui ci sono passaggi procedurali che soltanto i consulenti magistrati della Commissione potranno delineare. «Invece sia egli sia Pignatone insistono per richiedere soltanto la riunione, riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale, un modo come un altro per prendere tempo».
Il 19 dicembre 1990 c’è un’altra riunione con lui, Sciacchitano e Pignatone: «Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e firmare la richiesta io di riunione dei processi nei termini di cui sopra». 19 dicembre 1990: «Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio». 19 dicembre 1990: «Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante, fra gli altri, l’onorevole Avellone a Pignatone, Teresi e Lo Voi, a mia insaputa. Gli ultimi due – cioè Vittorio Teresi e Francesco Lo Voi – non fanno parte del pool». 10 gennaio 1991: «I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del giudice istruttore Grillo dei giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina tre anni addietro con imputazione di peculato. Il Giudice Istruttore ha rilevato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreto d’ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il PM Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del Codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione della furbizia di certuni che, senza aver informato il pool, hanno creduto con una ardita ricostruzione giuridica di sottrarsi a censura per una iniziativa (arresto di giornalisti) assurda e faziosa di cui non può essere ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, Procuratore capo dell’epoca».

16 gennaio 1991: «Apprendo oggi che, durante la mia assenza, ha telefonato il collega Moscati, sostituto procuratore della Repubblica a Spoleto, che avrebbe voluto parlare con me per una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti nella quale era necessario procedere a indagini collegate. Non trovandomi, il collega ha parlato con il capo che naturalmente ha disposto tutto e ha proceduto all’assegnazione della pratica alla collega Principato, naturalmente senza dirmi nulla. Ho appreso quanto sopra solo casualmente, avendo telefonato a Moscati». 17 gennaio 1991: «Solo casualmente, avendo assegnato a Scarpinato il fascicolo relativo a Ciccarelli Sabatino, ho appreso che Sciacchitano aveva provveduto alla sua archiviazione senza dirmi nulla. Ho riferito quanto sopra al capo che naturalmente è caduto dalle nuvole. Sul Ciccarelli, uomo d’onore della famiglia di Napoli, il capo mi ha esternato preoccupazioni derivanti dal fatto che teme di contraddirsi con le precedenti note prese di posizione della Procura di Palermo in tema di competenza per i processi riguardanti Cosa nostra». 26 gennaio 1991: «Apprendo oggi, arrivato in ufficio, da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte quella stessa mattina si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito nel processo Mattarella da Lazzarini Nara. Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego, ma che, se si vuole mantenermi al coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta». 6 febbraio 1991: «Oggi apprendo che Giammanco segue personalmente un’indagine affidata da lui stesso a Vittoria Randazzo e riguardante dei carabinieri di Partinico coinvolti in attività illecite. Uno dei carabinieri è stato arrestato a Trapani e l’indagine sembra abbastanza complessa».

  o letto questi appunti perché troverete le spiegazioni che dà Siclari e farete le vostre valutazioni. Il vero motivo invece è il contenuto di quella annotazione a cui mi riferivo prima, e cioè il fatto che a un certo punto sembra che ci siano delle annotazioni; dico sembra perché noi non le abbiamo viste, allora dobbiamo inferire e dedurre. Ecco l’importanza dei verbali del CSM, anche questa volta ci vengono in aiuto: la testimonianza della dottoressa Enza Sabatino.

Con riferimento alle annotazioni che vi ho appena letto Siclari a un certo punto si sbilancia: «Guardate sono fatti che in qualche modo accadono fisiologicamente in una Procura, quindi personalmente ho dovuto muovermi celermente. La mia discrezione e la rapidità, dice sua eccellenza Siclari, nasce dal fatto che non potevo contribuire – l’onestà di Siclari è enorme – e probabilmente può essere andata anche a discapito di un approfondimento che poteva essere necessario, ma, dato il contesto, cioè che c’era una campagna forte di delegittimazione nei confronti del procuratore Giammanco in quel momento in cui si sa dei diari, perché è dopo la strage di Falcone, io mi sono mosso, ho chiesto delle giustificazioni e alla fine mi sono fatto un’idea che tutto sia abbastanza chiarito» e dà delle spiegazioni. Poi fa una valutazione: «Ma in fondo queste sono le annotazioni, perché Falcone, se avesse avuto motivi di rancore veri nei confronti del dottor Giammanco, in qualche modo da Roma, avendo raggiunto il livello ministeriale, il fatto stesso che il dottor Falcone non abbia preso iniziative successivamente vuol dire che anche lui alla fine si è sfogato. Prendiamole per annotazioni in cui il suo malessere ha trovato in qualche modo sfogo».

Le cose non stanno così quando un anno fa invece leggo l’audizione della Sabatino, perché la sua audizione dà conferma della veridicità di quanto sostenuto sia nell’articolo dell’Espresso sia nell’articolo de La Stampa e cioè che il vero momento di assoluta umiliazione di Falcone da parte di Giammanco davanti a tutta la Procura, ha riguardato la titolarità dell’assegnazione del fascicolo sulle riaperte indagini per il duplice omicidio del colonnello Russo e del professore Costa. Lì Falcone decide che è arrivato il punto di chiudere l’esperienza palermitana e dirà a Teresa Principato che lo riporta, altro riscontro in seno ai verbali della commissione; lui dice «Chi rimane qua? Io me ne vado, andatevene anche voi», e lo vedrete nel verbale della dottoressa Principato: «Chi rimane qua? Anzi vi consiglio di andarvene, altrimenti sarete complici di questo sistema». Cosa succede in quella riunione? Ce lo dice la dottoressa Sabatino.

Leggendo quei verbali vi renderete conto che i commissari sono convinti che le annotazioni sono quelle 14 di cui parla la Milella e vedrete che è la Sabatino che dice: «Guardate che ci sono altre annotazioni e io leggendo l’articolo di D’Avanzo sono saltata in aria perché io ho vissuto l’annotazione di Falcone, io l’ho vissuta perché sono la protagonista. Quindi io sto qui a dirvi che, siccome l’annotazione che mi riguarda non c’è nell’articolo della Milella, ma è sull’ “Espresso”, io sto qui a dirvi che, avendo vissuto l’esperienza di quell’annotazione, è vero quanto sostiene D’Avanzo, che gli scalini famosi sono 39, le annotazioni sono 39 e non 14».

Cos’era successo di fatto? Dice che uno dei momenti caratterizzanti l’attività di coordinamento di un procuratore aggiunto è quello di potere stabilire lui l’assegnazione dei fascicoli ai sostituti cui affidarli. Tenete conto che era entrato da poco in vigore il codice di procedura penale per cui per potere gestire i vari procedimenti, secondo la nuova organizzazione che il codice aveva dato agli uffici, fu necessario reclutare anche sostituti procuratori che non erano a rigore all’interno del pool antimafia, e cioè che si occupavano di ordinaria, ed Enza Sabatino era una di questi.

6) Continua

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